Sandro
Bellomo
Ancora una volta mi ritrovo vis-à-vis con la pittura di Bellomo,
ancora una volta mi confronto con i suoi Volti. Al primo incontro fui
colpito dalla forza espressiva, dai contorcimenti immobili delle facce
dell’artista, collegate tra loro da una sottile e permeabile membrana
che le rende compartecipi dei rispettivi destini. Esse infatti appartengono
allo stesso gruppo etnico, vivono tutte nella stessa enclave, e non potrebbe
essere altrimenti, visto che le distinzioni avvengono attraverso gli apparati
esterni che ognuno di noi valorizza, e non dai volti, tutti dignitosi
ed essenziali nella loro semplicità.
Ma qualcosa di inusitato qualifica i personaggi bellomiani, presentati
su un supporto ligneo di piccolo formato, quasi fossero preziose formelle
del portale di una cattedrale.
La ricerca condotta dall’artista su quella che in precedenza ebbi
a definire una “mappa biologica ed esistenziale dell’individuo”,
si concretizza con la realizzazione di nuovi ritrovati materici; il colore
assume maggiore pastosità e sembra quasi essere il fulcro dell’intera
composizione pittorica.
In realtà, è sempre il segno che valorizza e crea spessore
nella produzione di Bellomo: l’elemento coloristico è solo
la maschera delle sue rappresentazioni, potrei definirlo un epifenomeno,
che ha funzione quasi da comparsa probabilmente utilitaristica, fungendo
da piedistallo all’elemento segnico.
In queste atmosfere, le superfici dei Volti sono trattate con estrema
ricercatezza, la manualità artigiana dell’artista irrompe
sulla scena e crea effetti scultorei di rilievo e di plasticità,
che permettono all’immagine – sempre più scavata da
solchi e ricca di meandri – di collocarsi nello spazio con una propria
volumetria.
È quasi naturale che gli sfondi (belli e significativi quelli celesti)
utilizzati per l’impaginazione dei soggetti, accentuino la forza
interiore ed espressiva degli uomini cui appartengono quelle facce, assegnando
loro un silenzio religioso e una spiritualità che, se non fosse
per la mancata frontalità delle immagini, ricorderebbero le preziose
astrazioni delle icone orientali.
Bellomo ripropone nelle sue ultime opere, con rinnovato vigore, un’umanità
consapevole delle proprie debolezze, ma per questo forte e dignitosa;
la sua pittura dà volto ad eroi o a martiri - questo non fa differenza
– fuoriusciti dalla comune normalità; le pennellate scandiscono,
fissandolo, il momento chiave dell’ispirazione e dell’inasprimento
della ribellione.
I soggetti sono vivificati da uno spirito che li rende impermeabili contro
ogni forma di sopruso: essi si incuneano come avanguardia all’interno
di un sistema artistico che, attraverso movimenti impercettibili come
possono essere gli sguardi, utilizza un linguaggio espressivo fatto di
silenzi e di osservazioni insondabili. Gli uomini di Bellomo respirano
a pieni polmoni - dilatando ferocemente le narici come belve che annusano
l’aria e il pericolo - le tragedie di un’umanità solitaria
e sbandata, affiorante da un vuoto esistenziale che sgretola ogni rapporto.
L’isolamento vissuto dai suoi personaggi assume, in definitiva,
valore difensivo; non occorre muoversi vorticosamente, prodigarsi in assalti
inutili all’arma bianca contro un nemico evanescente: è più
utile costituire un punto fermo, un pilastro che sia da sostegno e da
riferimento a tutti coloro che, stanchi dello stoicismo venefico del vissuto
quotidiano, sono pronti ad osservare cinicamente, ma in rispettoso silenzio,
lo straziante spettacolo della “commedia umana”.
Paolo
Luchena
Confidare nella pittura, e più in generale nell’arte, è
il primo comandamento dell’artista Paolo Luchena: non c’è
attimo in cui egli non sia proiettato nel mondo oniricamente concreto
della sua produzione figurativa, stimolo continuo della propria esistenza.
Il furor generatore nasce dall’osservazione onesta e rigorosa della
natura, madre di ogni sentimento e, principalmente, di ogni forma sensibile,
da essa l’artista coglie l’essenza cromatica e le linee che
compongono le sue opere.
Quello che compie non è, comunque, un semplice processo imitativo,
ma un prelievo fortemente critico, e soggetto ad una successiva rielaborazione
in chiave estetica: Luchena estrapola il senso più intimo dell’universo
sensibile, ma visibilmente precluso ai più.
E proprio dalla natura che il pittore, neo artefice pagano, riesce a far
trasmigrare – attraverso un processo di moderna alchimia di stampo
avanguardista, simile a quella dei cubisti ortodossi – i simboli
pittorici, di provenienza prettamente mediterranea (come i limoni, che
i pennelli dell’artista trasformano in generosi e marmorei seni),
generando, attraverso sapienti citazioni, un’iconografia di sapore
rinascimentale.
I suoi Nudi artistici raffigurano donne-veneri dalle carni abbondanti
e invitanti, creature procaci che all’occorrenza possono convertirsi
in caste marie, ma sempre cariche di pathos e tensione erotica; i volumi
solidi e tondeggianti delle donne sono impreziositi da un tessuto cromatico
composto da una sapiente ed equilibrata giustapposizione di toni caldi\freddi,
con una preminenza (non dispotica) del verde, presente in tutte le sue
sfumature.
La scala cromatica realizzata dall’artista ( e non senza un lungo
studio – anche teorico – alle spalle) genera l’universo
multiforme delle sue opere: in questo climax figurativo rientrano anche
i Fiori ciclopici e le Nature morte.
I primi sono rappresentati con rigore scientifico, e il particolare viene
esaltato dall’occhio dell’artista come chiave di lettura dell’intera
struttura compositiva: ecco che il colore, con la dilatazione delle forme,
è eletto protagonista assoluto, i petali si trasformano verosimilmente
in scaglie di armatura, in squame di serpente, in macchie di leopardo.
Il soggetto, attraverso una descrizione fiamminga delle sfumature, si
appropria così dell’intera superficie pittorica, e crea fantasticamente
una realtà parallela, non affatto peggiore di quella concreta,
in cui i fiori hanno dimensioni umane, anzi umanizzate e occupano un posto
di primo piano nei cosiddetti generi artistici.
Le Nature morte, e questo vale anche per i Fiori, sono geneticamente assimilabili
ai Nudi: i frutti che le compongono (anche qui soprattutto limoni) sono
realizzati con le stesse volumetrie e con lo stesso impasto cromatico
che caratterizzano il linguaggio pittorico dell’artista. Le Still
Life (termine che meglio descrive la spiritualità del soggetto)
rappresentano un ulteriore canto d’amore, quasi edipico, senza riserve
e simbolismi, a Madre-Natura; in esse, infatti, non bisogna leggere reconditi
significati simbolici (come i conoscitori sarebbero tentati a fare), ma
un elogio puro, primitivo nella sua semplicità, a colei che permette
a Paolo Luchena di esprimere i suoi mondi naturalistici, attraverso la
perfetta sintesi di forma e colore, elementi anch’essi puri e semplici,
“porte regali” della percezione visiva.
Pasquale Pitardi
È apparentemente difficile collocare la produzione artistica di
Pasquale Pitardi all’interno di una categoria delle arti figurative,
così come la tradizione artistica spesso pretende, e pericolosamente
realizza. L’artista, e lo posso affermare senza perplessità,
vive la sua ricerca in una fluttuante zona di frontiera, dove il bidimensionale
(allegabile alla pittura su un qualsiasi supporto) si plasma con la tridimensionalità,
ricca di vuoti e pieni, della scultura (praticata in maniera quasi classica),
alla ricerca del genere artistico universale e completo, lontano dalla
contemporanea e diffusa concezione autoptica che comunemente si ha.
È una lotta che Pitardi conduce incessantemente con consapevolezza,
cosciente dell’importanza che essa detiene su se stesso e che gli
permette, attraverso continui impulsi vitali, di concretizzare le ricerche
e le sperimentazioni “pittografoscultoree”.
Una lotta generatrice, quindi, paradossale per certi versi, ma evidentemente
emblema di un disagio ricollegabile ad una collettività sempre
più distante e sprezzante, nei confronti di chi pratica arte: l’artista
ha un bisogno costante, quasi spasmodico, di dialogare con chi si pone
davanti all’opera; egli rivendica con forza il ruolo di catalizzatore
tra i messaggi figurativi e il comune fruitore, cercando di scuotere e
di invadere la coscienza estetica del pubblico.
Le Pittografosculture presentate in questa occasione, rappresentano un
po’ il sunto del lungo percorso artistico di Pitardi: esse racchiudono
- ma non custodiscono gelosamente, anzi sono pronte a rilasciarle a chi
ne fa interessata richiesta - le essenze ispiratrici della sua “lotta
” artistica.
Le opere di Pitardi sono piccole, preziose sfere che pullulano liberamente,
e salgono verso il cielo, trasportando le personali invocazioni dell’artista;
esse contengono i colori che spesso si ritrovano in certi tramonti, cantati
anche da Bodini, che invadono – insanguinandoli - i cieli del Salento.
Il mondo malato e corrotto dalla quotidianità, Pitardi lo sostituisce
con un doppio – concreto e tangibile -, con un ritrovato paradiso
terrestre, dove l’umanità si scioglie e rifluisce in una
miriade di particelle, elementi costituenti la primordiale nebulosa della
vita.
Pitardi afferma con le sue opere: sofferenza uguale vita. Sintagma chiuso
e perfetto, meccanismo cinico di autogestione dell’universo; poetica
chiave, che avvia i monumentali “teleri” ad un utilizzo profetico.
Essi prefigurano la condizione del genere umano in un futuro più
o meno prossimo, in cui ognuno di noi dovrà creare una personale
via di fuga verso “paradisi artificiali”.
Il rifugio rappresenta ormai la terra promessa per ognuno di noi, il porto
sicuro in cui riparare per respirare ossigeno pulito, e da cui ripartire
consapevoli della validità della propria missione: queste “utopie”
sono presenti nelle opere di Pitardi, che da eccezionale demiurgo le ha
scomposte e collocate tra i meandri spaziali delle sue sfere, tracciando
così una rifondata topografia dell’universo.
L’ordine riscontrabile nelle opere dell’artista, non è
altro che una successiva ricostruzione del contemporaneo caos disgregante:
c’è bisogno di un nuovo diluvio universale, di un nuovo rimpasto
della materia, di una nuova grande e onesta rivoluzione estetica, la cui
parola d’ordine, il nuovo motto dittatoriale, sarà dettato
dagli stessi artisti, profeti invasati e credibili delle coscienze umane.
massimiliano cesari |
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